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Agricoltura + fotovoltaico = agrivoltaico

Raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione è di fondamentale importanza per il benessere del pianeta e, per farlo, è necessario individuare percorsi sostenibili per realizzare infrastrutture energetiche adeguate. Negli ultimi anni sono state sperimentate diverse soluzioni per conciliare il settore agricolo e quello delle fonti rinnovabili e da qui si è sviluppato quello che oggi chiamiamo “agrivoltaico”, un sistema che permette di sfruttare i terreni agricoli per produrre energia rinnovabile, senza comprometterne il rendimento. In alcuni paesi europei, come per esempio Francia e Germania, questo metodo è già in una fase avanzata, mentre in Italia è ancora in via di sviluppo. L’idea è stata presentata per la prima volta nel 1981 da Adolf Goetzberger e Armin Zastrow, anche se il termine inglese agrivoltaics risale al 2011. L’agrivoltaico consiste nella produzione di energia rinnovabile tramite pannelli solari installati direttamente sul suolo agricolo, senza però creare disagi a coltivazioni o allevamenti, anzi incrementandone la resa grazie all’ombreggiamento generato dai pannelli, che riduce lo stress termico sulle coltivazioni. È una soluzione innovativa per generare energia pulita direttamente dalle nostre terre ed è parte integrante della transizione energetica, poiché può migliorare la qualità del suolo e mitigare gli effetti della crisi climatica sull’agricoltura.

A giugno del 2022 sono state pubblicate delle linee guida in materia (https://www.mase.gov.it/sites/default/files/archivio/allegati/PNRR/linee_guida_impianti_agrivoltaici.pdf), che definiscono il sistema agrivoltaico “un impianto fotovoltaico che adotta soluzioni volte a preservare la continuità delle attività di coltivazione agricola e pastorale sul sito di installazione”. I pannelli solari infatti, vengono installati a un’altezza da terra tale da consentire il passaggio delle macchine agricole e sono in grado di ruotare attorno a uno o due assi tra loro ortogonali per essere sempre direzionati verso il sole ed evitare di farsi ombra l’uno con l’altro.

Chi può realizzare un impianto agrivoltaico

I soggetti che possono realizzare un progetto simile sono le imprese agricole, singole o associate, che vogliono contenere i propri costi di produzione, utilizzando terreni agricoli di loro proprietà, e le Associazioni Temporanee di Imprese, formate sia da imprese del settore energia che agricole, che mettono a disposizione i loro terreni per l’installazione dell’impianto.

I vantaggi e gli svantaggi dell’agrivoltaico

L’agrivoltaico è una soluzione in grado di offrire numerosi benefici, quali proteggere le colture da eventi climatici estremi, migliorare la competitività delle aziende agricole, utilizzare una parte dei terreni abbandonati in Italia, rendere i processi agricoli ecosostenibili e raggiungere gli obiettivi di carbon neutrality. Il principale problema riscontrato invece, riguarda i costi, poiché sia quelli di progettazione e monitoraggio che quelli di gestione risultano essere molto elevati.

Le diverse tipologie di coltura

Va sottolineato però, che non tutte le coltivazioni sono adatte alla produzione di questo tipo di energia e per questo, nelle linee guida menzionate sopra, è stata fatta una divisione in base alla reazione alla riduzione luminosa. Oltre alle colture non adatte, quelle che richiedono un’elevata esposizione alla luce (alberi da frutto, farro, girasole, frumento, farro e mais), sono state individuate altre quattro categorie:

  1. Le colture molto adatte, in cui l’ombreggiatura ha effetti positivi sulla resa quantitativa, quali fave, insalata, patate, spinaci e luppolo;
  2. Le colture adatte, in cui l’ombreggiatura moderata non ha praticamente effetti sulle rese, quali asparagi, avena, carote, cavolo verde, colza, finocchi, orzo, piselli, porri, ravanelli, sedano, segale, tabacco;
  3. Le colture mediamente adatte, ad esempio cipolle, fagioli, cetrioli e zucchine;
  4. Le colture poco adatte, cavolfiore, barbabietola da zucchero e barbabietola rossa.

Il vantaggio sarebbe dunque anche a favore dell’agricoltura, dato che in alcuni casi l’agrivoltaico migliora la resa delle coltivazioni, ma soprattutto perché i moduli fotovoltaici possono agire come barriera contro il sole, il calore, la siccità o le precipitazioni.

Per definire un sistema “agrivoltaico”, occorre che questo rispetti dei requisiti, anch’essi indicati nelle linee guida: “creare le condizioni necessarie per non compromettere la continuità dell’attività agricola e pastorale, garantendo, al contempo, una sinergica ed efficiente produzione energetica” e garantire “che almeno il 70% della superficie sia destinata all’attività agricola”.  

L’agrivoltaico in Italia

Nel nostro paese l’agrivoltaico non è ancora molto sviluppato perché manca una disciplina specifica a livello nazionale, ottenere il permesso di realizzare gli impianti è un processo lungo e complesso e non ci sono incentivi a causa del divieto di installazione per la protezione dei terreni agricoli. Nonostante questo, due regioni vantano campi agrivoltaici: la Sicilia, a Scicli (RG), con un progetto che copre 22 ettari, di cui 17 abbinano pannelli solari e coltura agricola, e la Sardegna, a Villacidro (SU), dove l’anno scorso è stato avviato un progetto da 13,789 MW. Anche la Puglia e il Veneto sembrano muoversi in questa direzione: la prima ha approvato questa tecnica e la seconda ha ospitato un convegno per sensibilizzare sul tema. Più in generale invece, in Europa è stato finanziato da 18 paesi partner Symbiosyst, un piano ancora in fase di progettazione che prevede l’attivazione di reti di sistemi agrivoltaici, con l’obiettivo di migliorare la competitività nel settore e minimizzare l’impatto sull’ambiente e sul paesaggio.

Per concludere, parlare di questo tema spesso solleva il problema del potenziale consumo di suolo, ovvero il rischio che grandi territori coltivabili possano essere sacrificati per la produzione di energia. Ma lo sviluppo di nuova capacità rinnovabile per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione e transizione energetica entro il 2030 non rappresenterebbe un pericolo in questo senso: infatti, si stima che sia necessaria un’occupazione dello 0,3% dell’intero territorio italiano e, se rapportato al terreno solo agricolo, di circa lo 0,6%.

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